Ho avuto modo di conoscere Andrea Franzoso ad Urbino, due anni fa, in occasione di un corso organizzato presso l’Università degli Studi “Carlo Bo”. Uno di quegli incontri che ti segnano, che hanno la capacità di farti riflettere, di suscitare domande e riflessioni.
La vicenda di Andrea, la sua testimonianza e le sue parole trasudano bellezza e trasparenza: la trasparenza di chi ha avuto il coraggio di esporsi, la bellezza del messaggio trasmesso.
Forse è la stima per quest’uomo a battere i primi caratteri di quest’articolo, ma le sue vicende non possono che gravitare attorno al suo spessore morale.
Andrea Franzoso è uno dei primi whistleblowers italiani.
L’ho chiamata “whistleblower”: come tradurrebbe, in italiano, questa parola?
Purtroppo non esiste, nella nostra lingua, un termine semanticamente equivalente al termine inglese “whistleblower” (nome composto dal verbo to blow, soffiare, e da whistle, fischietto), che letteralmente significa “soffiatore nel fischietto”. Come l'arbitro o il guardalinee che, sul campo da calcio, fischia per segnare un fallo e fermare il gioco sporco, il whistleblower è quel lavoratore che, invece di farsi gli affari suoi, segnala alle autorità competenti un presunto fatto illecito di cui sia venuto a conoscenza in ragione del suo rapporto di lavoro. Purtroppo, per molti nostri connazionali non è altro che uno “spione”. Sono, infatti, quasi tutti negativi i termini o le espressioni con cui lo descriviamo in italiano: delatore, spia, talpa, gola profonda, infame... Ciò rivela una nostra tara culturale: la lingua riflette la lingua dei parlanti e se non esiste una parola vuol dire che quella condotta non è così comune o significativa. Se, poi, vengono addirittura usate parole con accezione negativa, be', allora significa che chi denuncia ciò che non va non ci sta molto simpatico. D'altra parte, fin da piccoli cresciamo con l'adagio che “Chi fa la spia non è figlio di Maria”. In italiano esiste, al contrario la parola omertà, assente in altre lingue. Tutto ciò vorrà ben dire qualcosa, no? Non lamentiamoci, poi, del fatto che in Italia non ci sia un'etica pubblica...
Il 29 Dicembre scorso è entrata in vigore una legge che tutela i whistleblower: che ne pensa?
Grazie alla legge 179/2017, entrata in vigore il 29 dicembre scorso, chi denuncia fatti illeciti sul luogo di lavoro non potrà più essere sanzionato, demansionato, trasferito o licenziato. Insomma, niente più ritorsioni o discriminazioni. Almeno sulla carta, poiché ci sono infiniti modi per far terra bruciata attorno a una persona. Basta che i colleghi non gli rivolgano più la parola o che non si siedano più al tavolo con lui a mensa, per esempio. E qui la legge non può farci nulla.
Guardiamo, però, al bicchiere mezzo pieno: è sicuramente un passo in avanti, in un processo che è anzitutto culturale. La legge recentemente approvata pone in capo al datore di lavoro l'onere di dimostrare che l'eventuale trasferimento o licenziamento di un dipendente non sia conseguenza della sua segnalazione di irregolarità. Ci sono grosse differenze fra settore pubblico e privato. Nel primo caso, la legge introduce alcune sanzioni pecuniarie, per esempio per punire chi si renda responsabile di atti ritorsivi ai danni di un lavoratore. Quest'ultimo, poi, ha diversi canali di segnalazione - sia interni (può rivolgersi al responsabile prevenzione della corruzione) sia esterni all'ente presso cui lavora (Autorità Giudiziaria, Corte dei Conti, Anac). Nelle aziende private, invece, i canali di segnalazione sono soltanto interni e non sono previste sanzioni a carico del datore di lavoro che discrimini un whistleblower. Quel che è peggio, però, è che non tutti i lavoratori del settore privato potranno beneficiare di questo strumento: il sistema di whistleblowing è stato infatti inserito nei modelli organizzativi per la prevenzione di reati previsti dal decreto legislativo 231/2001, la cui adozione da parte delle aziende è facoltativa! Solo le aziende di medio-grandi dimensioni li adottano: sappiamo, però, che il tessuto economico-produttivo del nostro Paese è costituito da piccole aziende, i cui lavoratori sono dunque ancora oggi privi di canali protetti per segnalare irregolarità. Un'altra lacuna è la mancata previsione di un fondo di ristoro, per sostenere le spese - in primis quelle legali - di cui un whistleblower potrebbe trovarsi costretto a farsi carico.
Che lavoro faceva quando decise di “soffiare il fischietto”?
Lavoravo in Ferrovie Nord Milano, un'azienda a controllo pubblico di cui Regione Lombardia detiene il 57,57% del capitale azionario. Lavoravo per l'Organismo di Vigilanza: in altre parole, dovevo prevenire che l'azienda commettesse reati a suo interesse e vantaggio. Un giorno ho scoperto che a commettere reati era nientepopodimenoche...il presidente (!), il capo dell'azienda, e lo faceva impunemente, a detrimento del patrimonio aziendale.
Cosa scoprì?
Scoprii che rubava. Rubava soldi dell'azienda. Il fatto è che non rubava di nascosto, ma chiedeva dei rimborsi che non gli erano dovuti.
Ci racconti qualcosa di più.
Con la carta di credito aziendale comperava davvero di tutto, per sé e la sua famiglia. Faceva la spesa al supermercato, si comperava abiti firmati, faceva cene eleganti o trascorreva serate in locali notturni (indimenticabili i 900 euro spesi in una sola serata al Twiga di Marina di Pietrasanta, il locale di Flavio Briatore), pagava viaggi e vacanze per i figli, acquistava prodotti di elettronica, profumi, articoli per la casa. pagò persino la toelettatura del cane, il poker online, l'abbonamento a Sky e i film porno. Tutto coi soldi di noi contribuenti. Non solo: aveva persino dato una delle auto aziendali, una bella Bmw di grossa cilindrata, a uno dei suoi figli, con tanto di carta carburante e telepass. Viaggiava a spese di Ferrovie Nord, che provvedeva persino a pagare le multe che prendeva. Non proprio quattro spiccioli, visto che in soli quattro anni accumulò multe per oltre 180mila euro. L'elenco delle spese folli è sterminato: ci sono anche gli oltre 124mila euro di bollette per traffico telefonico e internet dei cellulari aziendali che aveva consegnato a sua moglie e ai suoi figli. Devo continuare? Anche adesso, a distanza di tempo, elencando queste spese – che ammontano a circa mezzo milione di euro – la rabbia monta come il latte. Le sue truffe erano aggravate dai doppi rimborsi: pagava prima con la carta di credito e poi si faceva consegnare gli scontrini e li dava ai contabili per avere anche il contante. Insomma: lo stesso bene se lo faceva pagare due volte. Per esempio le scarpe Hogan da 330 euro, che Ferrovie pagò 660 euro. Tante persone sapevano: le segretarie, i contabili, il direttore amministrativo, ma tacevano. Più per opportunismo che per paura, credo.
Quando è accaduto?
Tre anni fa. Ho presentato la mia denuncia il 10 febbraio 2015, le indagini sono durate tre mesi e il 18 maggio 2015 i carabinieri hanno notificato a Norberto Achille – questo il nome del mio ex presidente – un avviso di garanzia e una misura interdittiva.
Quali sono stati i passaggi precedenti alla denuncia?
Per prima cosa, segnalai le ruberie del presidente all'interno dell'azienda. Mi resi subito conto della gravità della situazione e decisi che avrei posto fine a quelle ruberie. Ma mi dissero: Lascia stare. Ci fu chi mi consigliò di utilizzare quelle informazioni a mio vantaggio, per ricattare il presidente. L'allora capo del collegio sindacale mi prospettò una brillante carriera, una promozione a dirigente. Come contropartita, avrei dovuto ammorbidire il report, aggiustare le carte, eliminare gli allegati con le diverse voci di spesa folli. Dissi di no e decisi di andare dai carabinieri per denunciare il mio presidente.
Quando prese la decisione di esporsi?
Quando capii che all'interno dell'azienda c'era la volontà di aggiustare le carte e di insabbiare lo scandalo, allora ho deciso di andare dai carabinieri. Non ebbi alcuna esitazione. Davanti a me avevo due strade: esposto anonimo o denuncia con nome e cognome. Ho scelto di metterci la faccia e di denunciare il mio presidente.
È stata una decisione presa in totale autonomia? Glielo chiedo, perché credo si tratti di una situazione delicata da gestire, soprattutto dal punto di vista emotivo.
È una decisione che ho preso in piena autonomia. A farmi scattare come una molla è stata l'indignazione, la rabbia che montò come il latte, di fronte a quelle ruberie, a quell'ingiustizia perpetrata sotto gli occhi di tutti. Non mi sono consultato con nessuno, l'unico con cui ne parlai – dopo che decisi di denunciare - fu un mio collega, a cui proposi di venire assieme a me dai carabinieri. Lui non venne, ma fu un testimone chiave, importantissimo, nelle indagini.
La reazione dell’ambiente del suo allora posto di lavoro?
Una reazione opportunistica. In un primo momento in molti vennero a complimentarsi con me, a battermi il cinque, ad abbracciarmi...: ciò avvenne il giorno in cui i carabinieri notificarono gli avvisi di garanzia e il mio ex presidente finì sotto inchiesta e fu costretto a dimettersi perché raggiunto da misura interdittiva firmata dal gip. I primi ad affrettarsi a sbandierare la loro solidarietà furono soprattutto quelli con la coda di paglia, come la segretaria del presidente, etc. Le stesse persone che, di lì a qualche giorno, quando arrivarono i nuovi vertici aziendali ed io fui dapprima isolato e poi trasferito, mi voltarono le spalle. A mensa quasi più nessuno si sedeva al tavolo con me. Alcuni mi davano appuntamento fuori dall'azienda, per non farsi vedere insieme a me.
E la sua famiglia?
I miei genitori all'inizio non compresero la mia scelta. O meglio, la compresero, ma ne ebbero paura. Ebbero timore per le conseguenze negative che avrei subito. Si sentirono quasi in colpa per avermi dato un'educazione che, apparentemente, era causa della mia rovina e mi rendeva marginale. Papà è disincantato e rassegnato: "Tanto non serve a niente! Tu perderai il lavoro e a quei farabutti non succederà niente. L'Italia è il paese dei furbi, non degli onesti. Se vuoi vivere onestamente, qui, hai vita dura. Piglia su le tue cose e vattene via, vattene in Inghilterra, vattene in Canada, ma non restare qui". Ecco ciò che mi disse, carico di sofferenza. Oggi la pensa diversamente ed è più sereno, perché mi vede felice e poi ho trovato un nuovo lavoro.
Nobili azioni, le sue, che le hanno portato “in dote” conseguenze non indifferenti sul piano lavorativo.
Per più di un anno sono rimasto disoccupato. In quel peroodo, ho scritto un libro (Il Disobbediente, PaperFIRST 2017, Prefazione di Gian Antonio Stella, Postfazione di Raffaele Cantone) che tratta appunto di questa vicenda. 2Un libro contro la paura”, lo ha definito la giornalista Milena Gabanelli. Sì, perché ciò che è successo a me, è successo a molti altri in passato, accede oggi e avverrà domani: a tutti capita di trovarsi di fronte a un dilemma etico. Che fare? Salvare la propria carriera o la propria coscienza? Io ho scelto quest'ultima, per preservare la mia dignità e continuare ad essere una persona libera. Oggi ho un nuovo lavoro: sono autore di Loft, società di produzione televisiva del Gruppo Editoriale Il Fatto Quotidiano.
Le sue qualità morali, però, alla fine sono state “premiate”.
Sì, è partita successivamente alla mia denuncia un'indagine condotta dalla Procura della Repubblica di Milano ed il 24 ottobre 2017 si è concluso il processo di primo grado, con una condanna a 2 anni e 8 mesi di carcere per peculato e truffa aggravata. Infine, ha restituito il maltolto. Quanto a me, oggi ho un nuovo lavoro: sono autore a Loft, la società di produzione televisiva del Fatto Quotidiano.
Il rapporto tra corruzione e libertà secondo Andrea Franzoso:
Come dice la parola in sé, "corruzione" indica uno scadimento, il passaggio da una sostanza a un'altra peggiore.
Si parla di corruzione quando un pubblico ufficiale riceve denaro o altre utilità per compiere un atto contrario alle proprie funzioni. La corruzione non nasce, però, nel momento in cui avviene questo scambio illecito, ma molto prima: nasce nello sguardo, nel modo di pensare della persona corrotta, nel modo di guardare le persone di fronte a sé. Le faccio un esempio riferendomi alla vicenda Ferrovie Nord. Un giorno, il mio ex presidente, al quale ero andato a chiedere conto di alcune spese folli relative all'acquisto di quadri antichi finiti in dono all'ex presidente di Regione Lombardia Roberto Formigoni, mi disse: "Tutti i regali servono per ottenere qualcosa. Anche tu - aggiunse, con un sorriso malizioso - quando fai un regalo alla tua ragazza lo fai per ottenere qualcosa. Perché vuoi portartela a letto. Poi arriva uno che ha più soldi di te, le fa un regalo più bello e se la porta via". E concluse: "E' una logica generale". Da questo discorso farneticante ho capito che per alcune persone non esiste la gratuità, non esistono regali fatti semplicemente per amore, per rendere felice la persona amata, per far qualcosa di bello per lei. Vedono il proprio prossimo con l'etichetta del prezzo tatuata addosso. Tutto si può comperare, per "loro". Tutto ha un prezzo. E dove c'è prezzo non c'è dignità, ma schiavitù. Non ci può essere libertà dove tutto si può comprare, come in un atto magico, in cui si può "produrre" una certa condotta in un'altra persona, che risponde dunque al volere altrui.
La corruzione distrugge l'integrità della persona, la scinde, la duplica, la triplica fino a frantumarla. La corruzione rende schiavi del denaro e del più vile opportunismo. "La corruzione spuzza" ha detto papa Francesco con un'espressione molto efficace: sì, puzza di tanfo, di marciume. E ricordiamocelo: "il corrotto dà pane sporco ai suoi figli".
Il sentimento predominante in Andrea Franzoso ad oggi?
Serenità, so di aver fatto la cosa giusta e ne sono felice. Un domani, se avrò un figlio, potrò guardarlo negli occhi.
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